ott 2014
di Edoardo Napodano
Lo sappiamo , in poche ore tutto può cambiare e aggiornamenti mirabolanti ci possono smentire o invecchiare senza misericordia: “è la stampa, bellezza”. Eppure l’occasione dell’aumento di capitale, pari a 80 milioni, del Gruppo Ferretti al momento di andare in stampa, ingolosisce e ci permette di rompere il tabù della stampa specializzata: provare ad uscire dai comunicati. Guarda un po’, roba da matti… anzi da “nautici”, appunto. Con umiltà da gente di cantiere non certo da economisti.
Cosa accade quindi al Gruppo che ha ancora tanto di italiano: siti produttivi, personale e dirigenza di tutti i livelli, fornitori (!), soprattutto la vera o talvolta presunta nobilitazione dei prodotti ed ultimo, correlatamente, tiene in piedi il Salone di Genova (il che è secondario, ma rimarchevole)? Tutti, stampa, sindacati e Madama la Marchesa, almeno tra chi riporta il fatto, plaude e non si trova in giro uno straccio di commento, di analisi, per dire economica o industriale.
Un aumento di capitale non è affatto un male di per sé, ma nella situazione contingente, dopo il salvataggio e la quantità di milioni – e di storia- precedenti, dovrebbe suscitare una domanda, anzi: il Gruppo così com’è funziona? Se non funzionasse, come mai non si cambia? Se perde, quanto perde? “Attira capitale straniero” come si è letto, oppure i cinesi ingoiano il rospo, costretti a tenere in piedi il Gran Circo, in attesa di farci ingoiare ben altro?
Altrettanti soldi sono stati perduti lo scorso esercizio? E ancora, ogni tanto –spesso anche a ritroso- arriva un nuovo amministratore, rullo di tamburi, proclami, “piani quinquennali”… poi lo fanno fuori e nessuno ne sa nulla. Forse sverna all’Albergo Lux di via Gorki… o al contrario se la gode al Claridge.
Sembra in atto una guerra tra i soci, stranieri. Ci sia perdonato il condizionale. Per ripianare le perdite dello scorso esercizio e del primo semestre 2014 i cinesi di Weichai che detengono il 75% delle quote sarebbero stati in qualche modo costretti a questa nuova iniezione di milioni, che però potrebbe anche essere tesa al predominio “sociale”. I soci ex creditori, The Royal Bank of Scotland (“RBS”) e Strategic Value Partners (“SVP”), ora al 25% sarebbero stati in disaccordo, ufficiosamente prima di aver chiaro il piano di sviluppo. Vaso di coccio in primis le maestranze e in fondo il ruolo, un qualche ruolo dell’italianità, già messasi alla porta da sola, da tempo.
Sempre ricordando lapalissianamente che il gruppo tutto insieme è una cosa, i marchi (brands – traduciamo per i ganzi del marketing che altrimenti non capiscono la miscion del nostro speach senza vision) hanno o avrebbero una loro vita propria. Per questo, andando oltre a qualsiasi comunicato degli ultimi anni, immaginiamo solo a buon senso e per fare pochi esempi, che CRN funzioni sfornando prodotti richiesti dal mercato (con “elasticità” e “tocco” italiani, rispetto ai concorrenti nordici – in Piemonte si direbbe “gheddu”), piuttosto che Mochi o Itama (chi l’ha visto?) soffrano la crisi della fascia media. Che poi oggi sembra essere ormai soprattutto un fatto italiano, perché varcati i confini non dico d’Europa, ma a Ventimiglia le cose appaiono migliori. Un amico proprio di Itama, in piena crisi ci diceva che comunque il suo cantiere vendeva e molto, all’etero.. pardon estero. Solo che non bastava a coprire i costi del Gran Circo, dimensionato all’infinito… Bertram? Provate a parlarne agli americani o ai semplici appassionati di big game – che a quello servivano le beneamate gioie…
Ah non vi spaventate: “concorrenti” vuol dire nella lingua di Dante (che è poi quella della nautica a dispetto di inglesi & C che rodevano non poco, anche se noi ci autoflagelliamo in un barbaro inglese marchettaro) “competitors”.