Generazioni a confronto
Alex Carozzo appartiene alla vecchia guardia dei velisti solitari: sfidava con una barca autocostruita navigatori del calibro di Francio Chichester e Bernard Moitessier, quando compiere navigazioni oceaniche su piccoli yacht era considerato una vera incognita. Esprime il suo giudizio personale, romantico e severo, sulla Volvo Ocean Race ed il suo professionismo esasperato: ad anni luce dalle regate oceaniche degli anni 60 e dalla Golden Lion.
Whitbread – Volvo Ocean Race. Dalla regata “della birra” – quanti secoli fa? – a quella “delle automobili”. L’ultima regata dei sessanta piedi: attualissimi, all’apice dello sviluppo tecnologico e quindi – paradossalmente – obsoleti, come tutte le cose “moderne”.
Invecchiati non per peso, metri od astrusi cocktail da computer, ma solo per la loro splendida immagine – nemmeno color seppia, ma digitale! – che dice: “Barche piccole e chi le vede più in porto o fuori?”. E dice ancora: “Tutto questo casino per diciotto metri di barca e con tutta questa gente a bordo”. E a bordo fanno i film e parlano ogni sera con moglie e bambini.
Questi sono tempi di “Coperate sailing”… cos’è? Una specie di terapia velica? Le barche con nomi industriali e mai tanta possibilità di vedere le barche e la vita degli uomini che le portano. Vela piena di record, ma anche di uomini stressati. Ciononostante gli esperti dicono che l’interesse del pubblico – il ritorno dell’investimento – è calalo. Nonostante ghiacci, nuovi record (Illbruck, 484 miglia nelle 24 ore in Atlantico, 29-30 aprile 2002), punte ai 40 nodi, avarie alle barche (notizia), avarie agli uomini (notizia), avarie ai tendini dell’avambraccio dei timonieri…
Dati e ricordi fortissimi: correre di notte con la barca al limite del controllo, a volte fuori, con il radar che dice “Iceberg di prora” e mari che è meglio non vedere. Ed ancora, uomini abili e forti – i nostri migliori – che si battono con il mare e tra di loro com’è nella natura dell’uomo, ad armi pari – certo – ma non è sport, non lo è più. Oppure lo è un po’ meno. Mi spiego: una volta non si andava così a sud. Non si rischiava la vita più del necessario. Ora si. E chi te lo fa fare? Il punto è che ormai si tratta di “lavoro”. Loro, i marinai, hanno il nostro rispetto, ma il “Corporate Sailing” li ha staccati da noi, “Asettici da spot tecnici”: rischi e sofferenze sono appannaggio solo di professionisti extraprofumatamente ricompensati. Sembra che l’altissimo standard tecnologico, malgrado la passione dei marinai, abbia ucciso lo spirito della regata intorno al mondo, quando barche e uomini erano riconoscibili per quello che erano dentro e fuori, nello spirito e nelle barche, per quello che vedevi, dal vestiario e dalle attrezzature, dagli interni e dalle facce degli equipaggi con parenti. Sono passati anni luce dal mio progetto di barca in acciaio da crociera (Ilgagomma) che finì una Whitbread e le altre, barche senza soldi, senza esperienza: solo l’avventura e vaghe speranze per il dopo. Agli equipaggi dicevo: “Quando arrivate due settimane dopo l’ultimo, avete vinto”. Ed i racconti, dopo, le foto, i primi film e i mari del Sud, Capo Horn.
Come ora, ma è differente e gli uomini sono tutti in uniforme.
Nella Formula Uno, la totale intercomunicazione tra box-macchina-pilota, ha prodotto macchine gestibili e controllabili anche dall’esterno. In Oceano non è troppo diverso. Telefonia, meteocontrol e la grande rete, con pit-stop velici in aumento per maggior visibilità commerciale, hanno aggiunto alla Volvo Ocean Race decine di punti di interesse ed emozione prima sconosciuti.
Regate prua a prua o a vista, per settimane di mare; arrivi di massa in poche ore o in pochi minuti; durissime condizioni di vita e di lavoro; uomini soggetti ad improvvise – a volte collettive – poco identificabili malattie da stress: tutto questo non salva la Regata da certi cambiamenti improrogabili e radicali. Cambieranno le barche ed il “formato”. Torneranno i buchi nei regolamenti, gli studi e le speculazioni progettuali e fans, professionisti e sponsor saranno felici, ognuno a suo modo, come nei migliori film.
Siamo in attesa di grandi cambiamenti e di grandi eventi. Perché è l’ignoto, il futuro che attira e ci diverte, non il noto.