di Edoardo Napodano
Fat-yacht e botafumeiro
Abbiamo la decenza di raccontarci le cose come stanno, almeno tra di noi: la progettazione alla ricerca di novità ad ogni costo, di compiacere una committenza il cui immaginario nautico si rifà alle papere della vasca infantile –per altro inaffondabili e non ancora nell’elenco del redditometro a differenza del sapone- compie misfatti che peseranno per decenni sulla flotta mondiale. Mettiamo il rollbar. A fine anni Ottanta erano il massimo della moda di chi avrebbe voluto fare o avrebbe fatto traversate atlantiche o comunque un po’ di miglia. Horribile visu. Da allora sono proliferate ovunque –vela/motore- e su qualsiasi metratura con effetti non sempre ferali “un bellissimo esempio di risoluzione della problematica sia estetica che strutturale del roll-bar -una volta era chiamato pazienza- la vediamo su sy Ghost di Brenta YD,
non per niente una delle barche più fotografate anni fa… solita lezione magistrale di Gran Stile Italiano nel mondo” (Danilo Fabbroni). Chissà se il compianto Franco Anselmi Boretti, il primo a idearlo per uno yacht a motore al posto del tradizionale alberetto dove trovavano sede antenne, radar, attrezzature varie si rese conto della portata della sua idea. Parlo di El Bravo un 40 metri del 1973 costruito da Valdettaro… quanta strada da quella specie di trasto poppiero dello Spray di Joshua Slocum.
Per par condicio, se non avessero prezzi sconsiderati vorrei portare ad esempio invece di sobrietà e compostezza, armonia e marinità gli americani Hinkley e Morris, perché non farà audience, ma qualche volta devo parlar bene di qualcosa. Carlo Sciarrelli sarà stato probabilmente antipatico e supponente, ma quanto adorabile mentre pronunciava: “Il bello non è nuovo, il nuovo non è bello”. Per il mio ruolo devo però cercare obbiettività oltre ai gusti personali. Potrei quindi spingermi ad una carrellata di valide barche attuali… ma lasciatemi quel mesetto di tempo per il prossimo editoriale.
Periodicamente qualche lettore evoca un altro mostro efferato: la plancetta. A volte non riesce nemmeno così nefasta, ma forse perché l’abitudine aiuta e l’adattamento umano non conosce quasi limiti. Giustificabile certo per imbarcazioni adibite a sommozzatori, sciatori, paraflighters e compagnia bella; invece assurta alla nobilitazione di grandi cantieri e grandi (grossi?) yacht. Su spartane barche a vela a volte sostituisce la desueta passerella (che accessorio davvero borghese, vecchio). Appendice a volte del “garage”… ecco appunto devo trovare una foto di ombrelloni piazzati sulle immani plancette, sorry, plancione, di grossi yacht. Perché se colleghi (esimi of course) in auge nei fab Eighties, si vantano di aver coniato il termine, l’accezione “super” ergo poi “mega” yacht io mi vorrei riconosciuta la paternità della novella e sempiterna categoria dei “grossiyacht”. Al singolare “grossoyacht”. Troppo italiano, troppo strapaese? Eccovi accontentati: “fat yacht”. Anche “blump yacht” meglio. “Rough yacht” no, perché non vorrei si pensasse trattarsi di yacht adatti al mare grosso.
E dopo questa pierottonata (non nel senso di Pierrot, ma di Piero Ottone – mi risulta abbia alfin alienato il suo Alnair IV, elegante One Tonner di Sparkman&Stephens, Carlini 1972 – e finalmente parliamo di barche!),
lasciatemi sfogare contro gli ombrelloni che stanno ad una barca quanto un turibolo. Che ha quantomeno il merito di profumare… my God… non avrò fornito un’idea diabolica a qualche arredatore di fatyacht!